mercoledì 20 marzo 2013

La necessaria separazione dei ruoli nel processo


"Non può un uomo tenere il posto di due" - Alfonso X il Saggio re di Castiglia

Se caliamo questo pensiero nel processo moderno la sua attuazione ci appare come pacifica: ogni soggetto che entra e partecipa al processo ha uno specifico ruolo e solo quello. Così il giudice, il pubblico ministero, gli avvocati, le parti, i testimoni sono come attori che recitano in uno spettacolo teatrale ma senza potersi scambiare il personaggio, ognuno deve fornire il proprio particolare contributo per la realizzazione dell'opera.
Questa conclusione che è affermata dalla dottrina processualista da lungo tempo è resa necessaria da una molteplicità di motivi più o meno importanti che dimostrano come un processo senza ruoli sia, di per sé, una aberrazione giuridica, una serie di atti che non può aspirare a produrre un risultato idoneo al suo scopo. Un esempio paradigmatico si ritrova nella storia: quando, fino all'inizio 1800, la prova nel processo penale europeo era ottenibile attraverso la tortura si generava una enorme sovrapposizione di ruoli processuali poiché l'imputato (ossi colui del quale bisognava giudicare l'innocenza o la colpevolezza) diveniva, grazie alla prova estorta tramite il supplizio, un testimone e non uno qualsiasi: egli fungeva da primo testimone contro se stesso anche se, la maggior parte delle volte, la confessione era data per la disperata speranza che cessassero i tormenti. La morte era vista come una liberazione rispetto al prolungarsi della tortura e, perciò, si confessava spesso il falso contro se stesso.
Per via dell'inumanità e della falsità di risultati probatori  cosi prodotti la tortura è stata abolita, ma vi è di più: per la necessità sentita che vi fosse distinzione tra l'imputato e colui che lo accusa, si sono progressivamente sviluppati dei meccanismi di tutela nel processo penale grazie ai quali la conoscenza dell'imputato viene introdotta negli stessi con particolari cautele. L'idea è che ci sia un pubblico ministero che ha il ruolo di sostenere l'accusa nel processo (cercando e allegando quindi le prove a carico) e di un imputato che ha l'onere e il diritto di difendersi nei modi più ampi.
Come detto poc'anzi oggi la sovrapposizione di ruoli processuali è vista pacificamente come una aberrazione giuridica. In realtà ciò di cui non potremmo più, senza orrore, fare a meno non è ogni tipo di separazione. Infatti anche nel processo come in altri ambiti vi sono delle “storture” più o meno gravi. Nell'esempio che abbiamo appena percorso la gravità era massima poiché il processo penale nega la sua funzione se è consapevole che vi è quasi certezza della falsità del suo risultato. 
Un'altra inaccettabile violazione processuale, non difficile da rintracciare nella storia medioevale europea, si riscontra in quei sistemi nei quali non è rispettata la separazione dei poteri così come delineata da Montesquieu: ciò si verificava ad esempio nei casi in cui un signorotto legiferava a suo piacimento, esercitava il potere esecutivo governando sui suoi possedimenti e, all'occasione, svolgeva anche la funzione di giudice, magari di ultima istanza, per le dispute sorte tra i sudditi all'interno dei confini del suo territorio. L'aforisma iniziale riferito al processo può senz'altro essere letto come una chiara affermazione della necessità di una separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; al contrario, infatti, i processi ne risentirebbero quanto meno per un costante orientamento politico e una arbitrarietà totale. Un processo è degno di chiamarsi tale sono quando si svolge di fronte ad un giudice terzo rispetto alle parti e all'oggetto della causa, il quale che possa svolgere la sua funzione concentrandosi unicamente sui fatti e le prove di questi ultimi che gli altri partecipanti portano a sua conoscenza.
La necessità di una separazione dei poteri dello Stato non si riverbera solamente sui ruoli processuali ma è un principio generale che si ritiene coessenziale ad un avanzato stadio di civiltà giuridica. Esso deve essere attuato in prima e fondamentale battuta già a livello istituzionale, ossia in astratto (perciò, ad esempio, la nostra Costituzione garantisce la indipendenza della magistratura dagli altri poteri e demanda al Consiglio Superiore della Magistratura ogni importante scelta legata al suo funzionamento). Al contempo è importante che esso venga realizzato in concreto nei singoli settori in cui vi possono essere frizioni tra i poteri ed il processo, come bbiamo, è proprio uno di questi. 

Da un punto di vista prettamente processuale in realtà, accettuando il caso che abbiamo evidenziato della separazione dei poteri, la necessità di una separatezza di ruoli è irrinunciabile in concreto, ossia in ogni singolo processo, pena l'inestistenza stessa del processo; mentre in astratto non è di per sè contro logica o razionalità la possibile fungibilità delle funzioni (ciò è dimostrato nel nostro sistema dalla possibilità che un soggetto partecipi in due procedimenti differenti o come avvocato di una parte oppure come arbitro essendo stato nominato a questo incarico). La separazione dei ruoli in astratto è una scelta demandata al nostro legislatore che potrà compiere valutazioni piuttosto discrezionali sul "se" e "in quale misura" consentire una certa fungibilità. Per chiarire mi sembra interessante analizzare il rapporto che intercorre tra giudice e pubblico ministero: in questo modo capiremo tra l'altro che vi sono  anche delle “sovrapposizioni” che producono distorsioni meno evidenti, meno gravi o comunque storicamente più accettate. 
Un tipico esempio era fornito, fino alla introduzione del processo penale accusatorio nel 1988, dalla permanenza nel nostro sistema processuale di un modello misto, con componenti inquisitorie (soprattutto davanti al pretore). Il modello inquisitorio è caratterizzato, in generale, da una grave sovrapposizione processuale poiché il pubblico ministero, che istruisce la causa, svolge le indagini preliminari e raccoglie le prove, diviene successivamente anche giudice in udienza. Ovviamente il principale problema posto da un siffatto modello è quello del “pregiudizio” che, quando formato nella testa di ogni essere umano, è difficile venga dallo stesso mutato. In sostanza è molto meno facile che un pubblico ministero che sia convinto della colpevolezza dell'imputato cambi la sua opinione nelle vesti di giudice e lo assolva. Questo è il motivo di fondo per cui da noi, oggi, queste due figure nel singolo processo sono sempre diverse e per cui il giudice conosce la causa non direttamente ma solo attraverso gli “occhi” del pubblico ministero e dell'avvocato della difesa.
La separazione tra PM e giudice però è rilevante non solo nel singolo processo (tale acquisizione è oramai irrinunciabile per uno stato di diritto) ma anche a livello istituzionale. Il grande dibattito che si svolge da anni in Italia attorno alla necessità o meno di una separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è emblematico di un certo disagio che si avverte per questa sovrapposizione di ruoli, sebbene rimanga essa confinata sul piano astratto. Il nostro legislatore consente una certa commistione dei due ruoli ma il passaggio da giudice a PM e viceversa è "controllato" dalla legge in modo molto più severo di quello libero che abbiamo visto in arbitrato e addirittura si discute se abolire questa possibilità.
Nonostante l'affermazione della irrinunciabilità della separazione dei ruoli nel singolo processo è possibile, infine, portare esempi di sovrapposizioni: anche in concreto vi sono delle situazioni in cui ancora oggi le nostre norme permettono commistioni di ruoli processuale. Un esempio lo troviamo all'articolo 86 del codice di procedura civile. In esso si trova codificato l'istituto della autodifesa nel processo che consente alla parte che abbia anche la qualifica di avvocato di sostenere, se vuole, la propria difesa nel processo senza avvalersi dell'ausilio obbligatorio del difensore. L'assistenza necessaria di un difensore per tutti gli altri trova la sua ratio nella tecnicità del processo con i suoi termini e le sue regole che solo un esperto può governare correttamente, l'idea è che in assenza di un avvocato il privato cittadino finirebbe con il sacrificare il proprio eventuale diritto sull'altare della difficoltà del processo. Un secondo importante elemento di utilità di una difesa tecnica è quello di introdurre nel processo dei soggetti che possano mediare tra le parti e tra esse e il giudice con un maggior grado di razionalità e freddezza rispetto all'oggetto della lite non essendone emotivamente coinvolte.
Se noi consideriamo entrambe queste forme di utilità capiamo che anche la sovrapposizione di ruoli, consentita dal legislatore con l'articolo 86 cpc, può provocare delle possibili “storture” nel processo: se la qualifica di avvocato garantisce la dimestichezza con le “regole del gioco”, l'emotività che inevitabilmente caratterizza la parte in lite turberà la capacità di un tal soggetto di essere un buon avvocato per se stesso! E' per questo motivo che statisticamente la maggior percentuale di avvocati-parte nomina un difensore come ogni altro privato cittadino.

Per concludere abbiamo visto come la sovrapposizione di ruoli nel processo sia altamente negativa: a volte lo nega totalmente, altre volte lo vizia in modo inaccettabile o, sebbene sembri innocua, genera dei difetti che andrebbero evitati. La soluzione migliore è la assegnazione a ciascun protagonista di un proprio ruolo in questo modo evitando le “storture”, aumentando l'efficienza del procedimento e la bontà del risultato racchiuso nella sentenza. Questo infatti è ciò che deve caratterizzare ogni processo: l'essere svolto avendo di mira un risultato che in quanto valido sia idoneo ad uscire dal palcoscenico dell'aula di giustizia ed esplicare i suoi effetti nella vita reale.

Per un recente articolo in cui evidenziamo la maggiore esigenza di separatezza dei ruoli processuali presente, da secoli, nei paesi angolosassoni, la quale viene attuata mediante istituti differenti dai nostri, potete leggere: La giuria popolare nel processo

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